
Come un sopralluogo iniziato male può volgere in modo inaspettato.
Passato il mio compleanno mi viene già voglia di autunno. L'anno scorso, un qualche giorno di fine ottobre...
<<Stefano, il meteo sembra reggere, andiamo a fare un sopralluogo?>>
Ovviamente ho studiato il percorso a tavolino in ogni dettaglio, compreso parcheggio perfetto per la partenza da Antarigole. Peccato che la carrabile da Vallesella sia chiusa al traffico, ordinanza comunale. Bah, vorrà dire che saliremo a piedi da fondovalle, cercando di intercettare l'itinerario originale in qualche punto, cosa che ben presto si rivela assai complessa, a meno di allungare di molto il cammino. Stefano esprime qualche dubbio sul sentiero che abbiamo intrapreso. Lo ignoro. So che non è educato, ma devo conservare il mio piombo professionale (aplomb suona decisamente meglio). D'altronde a questo servono i sopralluoghi: a esplorare.
<<Perché non prendiamo questo sentiero che taglia e ci porta più o meno dove avrei voluto? Guarda, sulla carta è segnato con lo stesso tratto della forestale.>>
Col cavolo! Il troi - parola che ci ispira locuzioni poco appropriate per questa sede - dedicato nientepopodimenoché a S. Vincenzo si rivela una traccia che alle gambe sembra ancor più ripida di quanto le isoipse raccontano. Qua e là gli schianti di Vaia. Scopriremo poi che il troi non viene regolarmente frequentato da una cinquantina d'anni. Ecco perché i segnavia erano un po' sbiaditi. In qualche modo raggiungiamo un bel pianoro fatto di boschi, radure e ameni tabià. Dopo aver divorato i nostri panini cerco di addolcire l'umore di Stefano con una tavoletta di fondente alle nocciole, ma non oso chiedergli di continuare.
<<Chiediamo informazioni per il rientro più rapido a quei signori lì, nella baita.>>
Dall'interno proviene, oltretutto, un delizioso profumo di funghi trifolati. Li mangerei anche adesso, dopo la cioccolata.
<<Avanti! entrate!>>
Non vogliamo disturbare, vorrei solo un'informazione per cortesia...
<<Per quella dovete entrare. Bianco o rosso?>> Stefano pronto: <<Rosso, grazie!>>
Ma cavolo, sono io la guida, io decido, non si beve accidenti.....
<<Grazie, io non bev... ok, poco però.>>
Fortuna che abbiamo già mangiato. In ogni caso i nostri ospiti - premurosamente - ci offrono subito anche un capelón (Macrolepiota procera) alla piastra grande come un tagliere. Così scopriamo che il versante prima della costruzione della diga era disseminato di pascoli e casere, che Tamarì dove ci troviamo era un pascolo intermedio prima di portare le vacche all'alpeggio più in quota, a Vedorcia.
<<Ma come, tornate indietro senza aver visto gli Spalti di Tóro? E' come andare a Roma senza vedere il Papa o il Colosseo!>>
Ci sentiamo in colpa per il solo fatto di aver pensato di non portare il nostro tributo a Thor (alcuni entusiasti ipotizzano che siano stati proprio i Celti a battezzare la nostra cima col nome del loro dio col martello; peccato che Thor fosse divinità dei vichinghi, e non credo loro siano venuti in Dolomiti, neanche per le vacanze). Così ci avviamo a Casera Vedorcia. Comprendiamo il disappunto dei nostri Cadorini. La foto non rende minimamente giustizia.
Piccoli piccoli al cospetto di tanta magnificenza ci mettiamo sulla via del ritorno, scegliendo un tragitto più lungo ma che ci permette di evitare il temibile S. Vincenzo, e di dover scomodare dal paradiso altri Santi oltre a lui. Perdiamo rapidamente quota e rotule, e incontriamo finalmente pendenze più umane. Tabià curatissimi in mezzo a un bosco dai mille colori.
<<Buonasera, sono appena arrivato, se aspettate un attimo apro il gas e vi faccio il caffè.>>
Giuseppe, 83 anni, avrebbe storie e fiato per ore e ore. Inizia con il suo piccolo rifugio dotato di camerata da 6 posti in letti a castello che servirebbero perfettamente da bivacco di emergenza: ci racconta che prima di arrivare in Val Talagona era stata la baracca di servizio durante la costruzione dell'ultimo tratto della "freccia del cielo", sulla Tofana di Mezzo. Smontata, era arrivata fin lì parte in trattore e parte a braccia nel lontano 1972. L'ha ricostruita e restaurata Giuseppe, facendo tutto da solo usando il legno degli alberi schiantati nel bosco. Poi ci racconta di quel pezzo di legno scuro che occupa un posto d'onore in cucina, parte di un tasso (Taxus baccata L., 1753) di 500 anni. Prima dei saluti definitivi - ce ne sono sempre molti quando la compagnia non ha davvero voglia di sciogliersi - ci mostra il suo inseparabile bastone in legno di ginepro (Juniperus communis L., 1753): una rarità trovarne un pezzo così dritto e perfetto
<<Sentite che leggero!>>
Giuseppe trascorre molto tempo nel suo rifugio, con gli attrezzi da lavoro e la scorta di ragù che la moglie gli prepara.
<<Secondo me un giorno si spegnerà lì, nella sua baita>> dico a Stefano tornando.
Amo i sopralluoghi.
Nella foto: Casera Vedorcia e loro, ovviamente.
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